I negazionisti del clima: falsità e pregiudizi
Sui cambiamenti climatici siamo tutti d'accordo. O forse no? Viaggio negli argomenti "forti" di coloro che negano il riscaldamento globale e i suoi effetti
Date:
13 September 2023
Gli effetti del riscaldamento globale sono ormai sotto gli occhi di tutti. O meglio: di quasi tutti, dal momento che alcuni esperti o sedicenti tali continuano, per interessi specifici o più semplicemente per limitata capacità di visione d’insieme, a negare l’evidenza. E sono tipicamente seguiti a ruota da chi è pronto, per le ragioni più svariate (politiche, economiche, commerciali), a cavalcare l’onda. Proprio poche settimane fa ha avuto un discreto risalto, nella stampa italiana, la presa di posizione del noto geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi, che ha dichiarato apertamente di non voler partecipare più a dibattiti pubblici nei quali dovessero essere coinvolti i cosiddetti “negazionisti del clima”. La cui presenza ha forse un certo interesse dal punto di vista di chi deve animare il dibattito, ma le cui posizioni sono in forte contrasto con la realtà dei fatti e con l’approccio scientifico.
Ma chi sono in sostanza, e cosa sostengono, i negazionisti del clima? Prima di provare a fare chiarezza e discutere punto per punto le principali tesi negazioniste occorre fare una breve premessa.
Elementi che portano spesso a uno stravolgimento della percezione, come dimostrato già dieci anni fa dai risultati di uno studio sociologico proprio sul clima, pubblicati dal quotidiano inglese The Guardian (18 maggio 2013). Se nella realtà la quasi totalità degli scienziati del clima (allora rappresentava “solo” il 97%, oggi il consenso è pressoché unanime) vede il riscaldamento globale come un problema, la percezione del pubblico intervistato era completamente diversa: secondo gli intervistati, solo il 45% degli esperti riconosceva il problema.
Quali le argomentazioni?
Ma quali sono le argomentazioni dei negazionisti del clima? Posto che un elenco completo ed esaustivo è pressoché impossibile, proviamo a elencare le principali, che, come si può facilmente notare, son tutt’altro che coerenti l’una con l’altra. E proviamo a dare, per ciascuna, un’argomentazione, ben sapendo che, come è stato ampiamente dimostrato proprio dagli studi sociologici di cui sopra, i negazionisti climatici, spinti da reazioni irrazionali, non si convertono certo con dati scientifici e ragionamenti logici.
Partiamo da un presupposto: il metodo scientifico, secondo la definizione che ne dà l’Enciclopedia Treccani, “si basa sull'osservazione e sulla sperimentazione, sulla misura, sulla produzione di risultati per generalizzazione (induzione) e sulla conferma di tali risultati attraverso un certo numero di verifiche”. Non solo osservazione e deduzione, quindi, ma anche conferma dell’ipotesi con prove che siano affidabili e replicabili, come proposto per la prima volta da Galileo Galilei attorno al 1600.
Metodo non infallibile, ma che consente un’evoluzione graduale, per successive approssimazioni, della conoscenza scientifica. E che fa della replicabilità sperimentale quasi un mantra.
Tuttavia, accanto ad alcune conoscenze scientifiche (soprattutto quelle più direttamente vicine alla percezione popolare, come quelle sul cambiamento climatico), sorgono spesso delle teorie negazioniste che mirano, attraverso specifiche tecniche retoriche, a confondere e spesso ribaltare quanto la comunità scientifica sostiene in modo pressoché unanime grazie alle evidenze sperimentali.
Si tratta di un fenomeno, quello del negazionismo scientifico, il cui studio ha recentemente riscosso un notevole interesse dal punto di vista sociologico. Fino alla formulazione, nel 2017, del concetto di FLICC, acronimo inglese che indica i cinque principali elementi del negazionismo scientifico: falsi esperti, errori logici, presunta necessità di prove scientifiche impossibili da ottenere, conclusioni affrettate e spesso basate su informazioni parziali o su campioni non rappresentativi (indicate in inglese come “cherry picking”, letteralmente la raccolta delle ciliegie) e teorie complottistiche.
Detta così non fa una piega. È vero: il clima cambia. Ci sono state ere glaciali alternate a periodi più caldi che hanno visto lo scioglimento dei ghiacci, con il Pianeta che si è sempre in qualche modo adattato al mutamento del clima. Un esempio su tutti: la Groenlandia. In inglese si chiama Greenland, territorio verde, mentre oggi siamo abituati al bianco delle immagini trasmesse dai satelliti. Ma son tanti i resoconti storici che parlano di vitigni coltivati in Inghilterra, vesti leggere in epoca romana, e molto altro.
Attenzione però: oltre ai cambiamenti climatici globali, estesi all’intero Pianeta, ci sono stati numerosi effetti del clima che hanno riguardato territori specifici e quello della Groenlandia – colonizzata da parte dei vichinghi islandesi attorno al 1000 d.C. – parrebbe essere uno di questi.
La temperatura media del pianeta viene misurata sistematicamente dal 1880, per cui non abbiamo dati storici derivanti da misure dirette. Ma già negli ultimi 140 anni i cambiamenti sono evidenti, come risulta dai dati pubblicati dal NOAA, l’Amministrazione del Governo statunitense deputata alla vigilanza di oceani e atmosfera. Quello che risulta è un rapido incremento, soprattutto negli ultimi 40 anni, delle temperature medie.
Insomma: il clima varia da sempre, localmente e globalmente, ma quello al quale stiamo assistendo ora è un fenomeno di una rapidità e di una magnitudo mai verificatesi prima su scala globale.
Questa è probabilmente la più grande delle assurdità che si dicono a proposito del riscaldamento globale. È assurda perché è assolutamente contraria all’evidenza scientifica. È vero: le misure sistematiche della concentrazione di CO2 nell’aria le abbiamo solo dal 1958 quando, sotto la direzione del chimico e climatologo statunitense Charles David Keeling, venne inaugurato a Manua Loa, nelle isole Hawaii, il primo osservatorio sul clima. Quello che è successo in precedenza, però, lo possiamo vedere dalle impronte lasciate dalla CO2 sulla scena del crimine. Analizzando i campioni di ghiaccio depositatisi nelle diverse epoche, soprattutto nelle calotte polari, gli scienziati del clima sono riusciti a misurare, procedendo a ritroso, l’andamento della concentrazione di CO2 in atmosfera negli ultimi 800.000 anni. E i risultati, anch’essi pubblicati dal NOAA americano, sono a dir poco eclatanti.
La concentrazione di CO2 in atmosfera è sempre oscillata tra 185 ppm (parti per milione, ovvero 185 molecole di CO2 su un milione di molecole complessive dei gas che costituiscono l’atmosfera) delle ere glaciali, circa 800-600.000 anni fa, e poco meno di 300 ppm.
Un’oscillazione abbastanza regolare che, oltre a cambiare nel corso dell’anno (principalmente, nei due emisferi, in corrispondenza delle fasi di maggior crescita della vegetazione, che assorbe la CO2 dall’aria), ha avuto nei secoli notevoli incrementi, generalmente abbastanza rapidi, per poi riequilibrarsi gradualmente. Incrementi dovuti tipicamente a fenomeni naturali, per esempio grandi eruzioni vulcaniche, seguiti da un lento processo di assorbimento e auto adattamento.
Tutto regolare, dunque. Tutto regolare fino all’inizio della rivoluzione industriale, quando la concentrazione di CO2 in atmosfera era prossima (278 ppm) ai valori massimi già registrati. Da allora, tuttavia, cambia tutto, con la concentrazione che schizza fino a ben oltre le 400 ppm (quest’anno abbiamo toccato il record di 424 ppm), con un incremento così rapido che, nel diagramma del NOAA relativo agli ultimi 800.000 anni, si percepisce come verticale.
Questa è l’evidenza scientifica. Alti e bassi fino alla rivoluzione industriale e all’uso incontrollato dei combustibili fossili. Carbonio che per centinaia di migliaia di anni è rimasto confinato sottoterra in forma di carbon fossile, petrolio e gas naturale e che di colpo viene estratto e riversato in atmosfera sotto forma di CO2.
Anche questo è totalmente privo di fondamento. Già nel 1896, in un suo articolo pubblicato sul Journal of Science, il chimico svedese Svante August Arrhenius (a cui fu conferito il premio Nobel per la chimica nel 1903) dimostrò gli effetti della CO2 sull’effetto serra e indicò che un ipotetico raddoppio della concentrazione di CO2 in atmosfera avrebbe portato a un aumento della temperatura media del pianeta di circa 5 °C.
Arrhenius è stato solo il primo, ma dopo di lui migliaia di scienziati del clima hanno dimostrato l’impatto della CO2 sull’effetto serra. Ci limitiamo a un esempio, seppure banale: il pianeta Venere ha un’atmosfera molto spessa, composta per il 96% da CO2, e l’effetto serra porta a una temperatura media di 420 °C. Viceversa, l’atmosfera di Marte è sottile, con pochissima CO2 e una temperatura media del pianeta rosso pari a 50 °C sottozero.
Anche quest’anno, nel mese di agosto, abbiamo assistito a un repentino crollo delle temperature, rimaste ben sotto la media stagionale per diversi giorni. Questo fenomeno è stato indicato da qualcuno come un’evidenza del fatto che il riscaldamento globale non sia affatto un qualcosa di concreto.
Si tratta, tuttavia, di un classico esempio del cosiddetto cherry picking. Si osserva un fenomeno locale e limitato per trarne delle conclusioni affrettate e prive di fondamento se valutate su scala globale.
Secondo i climatologi, molti di questi fenomeni che portano, nelle zone temperate del Pianeta, periodi di freddo intenso nella stagione estiva sono invece una diretta conseguenza del riscaldamento globale: molti derivano infatti da fenomeni di riscaldamento nelle aree polari, con correnti d’aria più calda che risalgono (per il principio di Archimede) verso gli strati più alti dell’atmosfera e che ridiscendono in alcune zone temperate. Aria calda rispetto alle temperature dei poli, ma freddissima se confrontata con le medie del mese di agosto in Europa meridionale.
Questo è vero, ed è un bene. I modelli previsionali (che non sono, sia chiaro, delle sfere di cristallo tramite le quali si può predire con certezza il futuro) presentano degli scenari, più o meno ottimistici a seconda delle ipotesi che vengono adottate. E i modelli più pessimistici prevedevano aumenti di temperatura ben al di sopra di quelli che stiamo osservando.
Questo anche grazie a noi e ai provvedimenti sempre più forti ed efficaci che stiamo adottando per preservare il clima. Interventi, tuttavia, ancora insufficienti per limitare gli effetti del riscaldamento globale.
Che molti fenomeni naturali contribuiscano al riscaldamento del pianeta l’abbiamo già visto. Eventi di vario tipo, tra cui soprattutto grandi eruzioni vulcaniche che hanno comportato emissioni di enormi quantità di CO2 in atmosfera. Si è trattato in qualche modo di eventi ciclici, con il Pianeta che si è sempre autoregolato in tempi (decine di migliaia di anni) che possiamo considerare relativamente brevi.
Quello che sta succedendo oggi, tuttavia, l’abbiamo visto: dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo superato ogni limite, emettendo ogni anno fino a oltre 35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. E la sua concentrazione in atmosfera ha ormai superato le 420 ppm.
Il problema è che stavolta non si tratta di emissioni naturali che, sebbene importanti, perdurano qualche settimana, qualche mese, al massimo qualche anno. Si tratta invece di emissioni durature, che dalla fine del XVIII secolo continuano a crescere senza sosta. Anche questa volta, secondo i climatologi, il Pianeta si potrebbe autoregolare. Ma per consentirglielo è sempre più urgente azzerare le emissioni antropiche. Anzi, possibilmente aiutare la natura a ridurre la concentrazione lasciando più spazio alle foreste e alle tecnologie a emissioni negative.
Qui occorre chiarire un concetto fondamentale: il problema non è l’effetto serra (senza il quale la vita sulla Terra non potrebbe esistere e si passerebbe da temperature glaciali la notte a temperature di diverse centinaia gi gradi di giorno), ma l’aumento eccessivo dell’effetto serra dovuto alla concentrazione sempre maggiore di CO2.
Aumento dell’effetto serra che potrebbe portare, entro la fine del secolo, a un aumento della temperatura media del pianeta fino a 3-4 °C. Che non significa solo inverni più miti e stagione balneare più lunga. Significa alterare completamente il delicatissimo equilibrio del nostro pianeta.
Stiamo parlando di temperature medie, ma variazioni ben più consistenti si andrebbero a verificare nei circoli polari e nelle montagne, con il conseguente scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari e l’intensificazione di fenomeni meteorologici estremi, di cui già oggi vediamo i primi segnali: uragani, alluvioni, siccità, incendi. Variazioni del clima che andrebbero a incidere profondamente su tanti fattori, col rischio di innescare un circolo vizioso dal quale sarebbe impossibile tornare indietro (se non, come detto, in tempi dell’ordine delle decine di migliaia di anni).
Gli esempi son tanti. Dalla temperatura superficiale dei mari (la cui alterazione rischia di compromettere la sopravvivenza della stragrande maggioranza delle forme viventi) all’assenza di neve sui rilievi (con il conseguente prosciugamento di molte delle attuali risorse idriche).
Insomma: la questione non riguarda un maglione in meno da indossare o un bagno in più fuori stagione. Riguarda la sopravvivenza della vita così come la conosciamo.
Gli esperti, quelli veri, non sono privi di responsabilità. Le grandi capacità di indagine in campo tecnico e scientifico non sempre si accompagnano all’abilità di trasmettere le proprie competenze in modo semplice e fruibile ai non addetti ai lavori. Ne conseguono spesso sospetti, paure e una generale diffidenza della popolazione verso le tecnologie di decarbonizzazione.
Pensiamo, per esempio, allo stoccaggio geologico dell’anidride carbonica, temuto da molti come possibile causa terremoti o altre catastrofi naturali. O come l’idrogeno, considerato da molti come la panacea di tutti i mali, la soluzione universale al problema, oppure, al contrario, come una sorta di bomba a orologeria. Eccessive paure o eccessivi entusiasmi in un settore che, più di ogni altro, dovrebbe essere guidato da un’attenta pianificazione e da una grande lungimiranza, ma che spesso è soggetto, a causa della disinformazione, a frequenti cambi di rotta dovuti non certo all’avanzamento delle conoscenze, quanto piuttosto ai sentimenti della popolazione. APettinau
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14/09/2023, 16:27